IV Domenica di Quaresima

Domenica del cieco

«… toccaci gli occhi della fede …».

 Lettura del Vangelo secondo Giovanni 9, 1-38b

In quel tempo. Passando, il Signore Gesù vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe» – che significa Inviato. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so». Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!». Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori. Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!».

Catechesi di padre Massimo di Domenica 27 marzo 2022 – dalla Parrocchia Santa Rita – Milano –  Vangelo del rito Ambrosiano – Giovanni 9, 1-38b.

2022-03-27_Domenica_pMG_Catechesi_dalla_Parrocchia_S_Rita_Milano.mp3

«… luce vera …».

Omelia di padre Massimo di Domenica 27 marzo 2022 – dalla Parrocchia Santa Rita – Milano –  Vangelo del rito Ambrosiano – Giovanni 9, 1-38b.

2022-03-27_Domenica_pMG_Omelia_dalla_Parrocchia_S_Rita_Milano.mp3

Padri e madri del deserto

«… Marcella …»

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27 marzo 2022

IV Domenica di Quaresima

Il Monachesimo in Occidente

Marcella

Noi tue discepole, tu la maestra […]. Tu sei stata la prima ad accendere in noi la scintilla, a esortaci con la parola e con l’esempio a questo genere di vita. Ci hai radunate come una chioccia i pulcini. (Girolamo, Lettere, 46, 1)

Quando i bisogni della Chiesa mi fecero venire a Roma […] e io fuggivo per modestia gli sguardi delle nobili donne, Marcella insistette talmente secondo le parole dell’Apostolo a tempo inopportuno e opportuno che il suo zelo vinse il mio riserbo. (Girolamo, Lettere, 127, 7.1)

Tu veramente […] non mi scrivi altro se non cose che mi spremono e mi costringono a leggere le Scritture. (Girolamo, Lettere, 29, 1)

Da lei per la prima volta fu confuso il mondo pagano, poiché fu chiaro a tutti che cosa fosse la vedovanza cristiana, che essa lasciava vedere dal suo atteggiamento interiore e dalla sua condotta esteriore. […] La nostra vedova usava vesti adatte a proteggerla dal freddo, e non a mostrare nude le sue membra; rifiutava l’oro, anche per l’anello, e lo nascondeva nel ventre dei poveri più che nelle borse. Non andava in nessun luogo senza la madre. […] Aveva sempre in sua compagnia vergini e vedove, tutte donne di grande serietà. Sapeva che è dalla leggerezza delle serve che si giudicano i costumi delle padrone e che quale una è, tale è la compagnia di cui si diletta. (Girolamo, Lettere, 127, 3.6; 3.9; 3.11)

A quell’epoca nessuna delle nobildonne romane a Roma conosceva la vita monastica […] e non arrossì di professare quel che sapeva piacere a Cristo. Parecchi anni dopo la imitarono Sofronia e altre. (Girolamo, Lettere, 127, 3.6; 3.9; 3.11)

Il podere alla periferia di Roma vi[1] servì da monastero; sceglieste la campagna a motivo della sua solitudine. Siete vissute in tal modo per lungo tempo e così, grazie al vostro esempio e al comportamento di molte, abbiamo avuto la gioia di vedere che Roma era divenuta un’altra Gerusalemme.  (Girolamo, Lettere, 127, 8.3)

Quale virtù, quale talento, quale santità, quale purezza ho trovato in lei, ho pudore a dirlo. (Girolamo, Lettere, 127, 8.3)

Incredibile era il suo zelo per le divine Scritture […]. Sapeva che la meditazione della Legge non consiste nel ripetere quello che sta scritto […], ma nell’agire […]. I suoi digiuni erano moderati, si asteneva dalle carni, del vino conosceva più l’odore del gusto, a motivo dello stomaco e delle frequenti malattie. Di rado si presentava in pubblico, e soprattutto evitava le case delle nobili matrone per non essere costretta a vedere ciò che aveva disprezzato. Onorava le basiliche degli apostoli e dei martiri con preghiere segrete e, tra di esse, quelle meno frequentate dalla gente. Obbediva a sua madre a tal punto che a volte faceva quel che non avrebbe voluto […] preferendo perdere il denaro[2] piuttosto che rattristare l’animo della madre. (Girolamo, Lettere, 127, 8.3)

 Così trascorse la sua vita per molti anni; si vide vecchia prima di ricordarsi di essere stata giovane. […] Marcella trascorse i suoi anni e visse pensando sempre di essere sul punto di morire. (Girolamo, Lettere, 127, 6.2; 6.6)

Poiché a quel tempo godevo di una certa reputazione quale studioso della Scrittura, non venne mai da me senza interrogarmi su qualche punto delle Scritture, e non si arrendeva subito, poneva invece domande non per spirito di contesa, ma per cercare e apprendere soluzioni alle obiezioni che avrebbero potute esser mosse. […]. Dirò soltanto questo: tutto quel sapere che ho potuto accumulare in me attraverso lunghi studi e trasformare quasi in natura attraverso una lunga meditazione, essa l’aveva bevuto, imparato, acquisito, così che dopo la mia partenza, se nasceva una controversia a proposito di qualche passo delle Scritture, si ricorreva al suo giudizio. E poiché era molto prudente […] quando la si interrogava, rispondeva esponendo un’opinione personale come se non fosse sua, ma mia, o di qualcun altro, e si professava discepola nell’istante stesso in cui insegnava […] e non voleva dar l’impressione di offendere il sesso maschile e, a volte, i preti che la interrogavano su questioni oscure e ambigue. (Girolamo, Lettere, 127, 7.2; 7.4-6)

Da troppo tempo stiamo vivendo nei compromessi. La nostra nave un po’ è stata sballottata da tempeste marine, un po’ s’è avariata nel cozzare contro gli scogli. Mi pare il caso, dunque, di rifugiarci al più presto in qualche solitario e nascosto angolino di campagna, come in un porto. Lì potremo nutrirci di cibi magari grossolani, ma genuini: pane ordinario, legumi annaffiati con le nostre mani, latte…, tutti prodotti campagnoli prelibati. Con un tal genere di vita il sonno non riuscirà a distoglierci dalla preghiera e la sazietà non ci farà ostacolo alla lettura. (Girolamo, Lettere, 42.3)

Allora la santa Marcella, che a lungo aveva chiuso gli occhi per non destare il sospetto che fosse mossa da gelosia, quando comprese che la fede, lodata per bocca dell’Apostolo, era violata in molti punti tanto che l’eretico trascinava perfino dei preti e molti monaci e soprattutto dei laici a dare il loro assenso e si prendeva gioco della semplicità del vescovo, si oppose pubblicamente, preferendo piacere a Dio, piuttosto che agli uomini. […] Fu lei a dar principio alla condanna degli eretici [che], chiamati a difendersi con numerose lettere, non osarono venire e tanto grande era il peso che gravava sulla loro coscienza che preferirono essere condannati in contumacia, piuttosto che essere accusati di persona. (Girolamo, Lettere, 127, 9.7; 10.5-6)

In mezzo a tanta confusione, il vincitore sanguinario entra anche nel palazzo di Marcella. […] Si dice che accolse gli aggressori con volto intrepido. Poiché le si chiedeva l’oro e le ricchezze nascoste, si giustifica mostrando la sua rozza tunica, ma non riesce a far credere alla sua povertà volontaria. Colpita con bastoni e flagelli, dicono che non sentisse i tormenti, ma che si gettava piangendo ai piedi dei suoi carnefici per supplicare che non ti[3] separassero da lei perché temeva che la tua giovane età non sopportasse ciò che la vecchiaia non poteva temere. Cristo addolcì i cuori induriti e tra le spade cruente trovò spazio la pietà. […] Dopo alcuni mesi Marcella, sana e salva, in buona salute si addormentò nel Signore e lasciò te erede della sua povertà, o piuttosto attraverso di te lasciò eredi i poveri. Chiuse gli occhi sotto le tue mani, rese lo spirito in mezzo ai tuoi baci e, mentre tu piangevi, lei sorrideva cosciente di aver vissuto bene e di godere dei beni futuri. (Girolamo, Lettere, 127, 13.1; 13.3-6; 14.1-3)

[1] Girolamo si rivolge qui a Principia, figlia spirituale di Marcella e destinataria della lettera 127.

[2] La madre Albina amava i suoi parenti e voleva che tutti i beni di Marcella, che non aveva figli, fossero devoluti ai figli del fratello. Marcella, invece, preferiva i poveri, tuttavia, non volle opporsi alla madre e lasciò ai ricchi i gioielli e le suppellettili.

[3] Girolamo si rivolge qui a Principia, figlia spirituale di Marcella e destinataria della lettera 127.

***

27 marzo 2022

IV Domenica di Quaresima

Il Monachesimo in Occidente

Marcella

Parallelamente a quanto avviene in Oriente, il Monachesimo trova terreno fertile anche in Occidente, laddove l’idea di deserto è però costretta con maggiore rigore ad allontanarsi dalle proprie peculiarità geografiche e a ridefinirsi. Assume così forme diverse, al punto che, a volte, il deserto sarà cercato e trovato addirittura nel cuore delle città[1].

Anche nel cuore delle città italiane.

Una lettera di Ambrogio, vescovo di Verona, ci informa che in quella città esistevano vergini consacrate, e lo stesso Ambrogio riferisce di comunità femminili a Bologna. Anche Agostino attesta l’esistenza di comunità di vergini vedove a Milano e Roma.

Tuttavia, senza minacciare la bellezza propria di ciascuna di queste comunità, si può dire che le comunità femminili più importanti in Italia sono senza dubbio sorte negli ambienti aristocratici romani.

Proprio in questi ambienti, gli echi dei racconti fatti da Atanasio e dal suo successore Pietro, in occasione dei loro soggiorni a Roma, erano giunti alle orecchie di alcune donne aristocratiche romane che, innamoratesi dell’esperienza che Antonio il Grande stava vivendo nel deserto[2], cercano il loro proprio deserto, tutto da custodire: uno spazio di solitudine e di intimità con il Signore.

In particolare le nobili donne latine godono di ampia libertà e dispongono di considerevoli mezzi e ricchezze, tali da poter permettere loro di viaggiare e di fondare monasteri anche in luoghi lontani da Roma. Non solo. Come già Sincletica, che cita insistentemente la Scrittura nelle sue catechesi alle discepole, la maggior parte di queste aristocratiche donne romane hanno una forte familiarità con la Scrittura e, anche per questo, i monasteri da loro fondati diventano luogo di promozione umana: molte donne impareranno qui a leggere e a scrivere quando la stragrande maggioranza dei contemporanei erano analfabeti e, in alcuni casi, avranno modo di incontrare vescovi, chierici, monaci famosi e di fermarsi in conversazione con loro.

Si diceva, appunto, che uno dei primi a portare in Italia la suggestione degli ambienti ascetici egiziani è Atanasio, vescovo di Alessandria, cui è attribuita la Vita di Antonio. Giunto a Roma tra il 341 e il 343 per cercare supporto contro l’eresia ariana, Atanasio diffonde le idealità dei padri del deserto tra i circoli dei cristiani più ferventi e trova ascolto in una fanciulla patrizia di intelletto acuto e rara sensibilità: Marcella.

Chi è Marcella?

Noi tue discepole, tu la maestra […]. Tu sei stata la prima ad accendere in noi la scintilla, a esortaci con la parola e con l’esempio a questo genere di vita. Ci hai radunate come una chioccia i pulcini. [3]

Le parole di Paola e della figlia Eustochio, tratte da una lettera indirizzata a Marcella per invitarla a raggiungerle in Palestina, iniziano a delineare i contorni di questa nobile donna appartenente all’aristocrazia romana, di cui, come purtroppo spesso è accaduto anche per altri e altre, la storia ne ha cancellato gli scritti, ma non le tracce[4]. Al punto che la memoria che di lei si tramanda, tra le righe delle epistole di Girolamo, è di una dolcezza e di una autorevolezza tale da lasciare nel lettore una specie di amarezza per non poter soddisfare il santo desiderio di conoscerla meglio.

Quello che Paola ed Eustochio ci permettono subito di capire è che Marcella vive, nel cosiddetto Circolo dell’Aventino, l’esperienza generativa della maternità spirituale di un gruppo di donne – ma anche di alcuni uomini – che si riunivano per leggere, studiare e commentare la Scrittura. Non è infatti accaduto, come alcuni potrebbero credere, che questo gruppo di vergini consacrate sia stato fondato da Girolamo. Egli stesso racconta come andarono le cose e come sia stata determinante l’ostinata risolutezza di Marcella in quella che poi si rivelerà essere non solo semplicemente una conoscenza, un’erudita amicizia, ma un comune servizio alla Parola, un’adesione radicale alla stessa, una profonda comunione tra i due, in Cristo:

Quando i bisogni della Chiesa mi fecero venire a Roma […] e io fuggivo per modestia gli sguardi delle nobili donne, Marcella insistette talmente secondo le parole dell’Apostolo a tempo inopportuno e opportuno che il suo zelo vinse il mio riserbo.[5]

Non si accontenta, Marcella, come avrebbe fatto chiunque altro, di quel che Girolamo ha da offrirle, che non è poco. Lei, assetata non di sterile erudizione, ma di Verità, continuamente rilancia. Al punto che Girolamo la chiama, con fraterna ironia, mio datore di lavoro[6]:

Tu veramente […] non mi scrivi altro se non cose che mi spremono e mi costringono a leggere le Scritture.[7]

Di questo gruppo di donne, dunque, solo ad un certo punto Girolamo divenne il consulente biblico e la guida spirituale.

Ma torniamo a Marcella.

Marcella, donna salda, equilibrata, mite e dolce, dalla singolare bellezza fisica[8], appartenente ad una delle più illustri famiglie romane, rimase vedova a soli sette mesi dalle nozze e rifiutò con sdegno la proposta di un matrimonio di convenienza da parte del console Cereale, deludendo le aspettative di sua madre Albina.

Da lei per la prima volta fu confuso il mondo pagano, poiché fu chiaro a tutti che cosa fosse la vedovanza cristiana, che essa lasciava vedere dal suo atteggiamento interiore e dalla sua condotta esteriore. […] La nostra vedova usava vesti adatte a proteggerla dal freddo, e non a mostrare nude le sue membra; rifiutava l’oro, anche per l’anello, e lo nascondeva nel ventre dei poveri più che nelle borse. Non andava in nessun luogo senza la madre. […] Aveva sempre in sua compagnia vergini e vedove, tutte donne di grande serietà. Sapeva che è dalla leggerezza delle serve che si giudicano i costumi delle padrone e che quale una è, tale è la compagnia di cui si diletta.[9]

Poco più tardi anche la madre si lasciò trascinare nella scelta della figlia e il loro palazzo sull’Aventino fu trasformato in un cenacolo ascetico, dove le due donne vissero una specie di monachesimo domestico.

A quell’epoca nessuna delle nobildonne romane a Roma conosceva la vita monastica […] e non arrossì di professare quel che sapeva piacere a Cristo. Parecchi anni dopo la imitarono Sofronia e altre.[10]

Il podere alla periferia di Roma vi[11] servì da monastero; sceglieste la campagna a motivo della sua solitudine. Siete vissute in tal modo per lungo tempo e così, grazie al vostro esempio e al comportamento di molte, abbiamo avuto la gioia di vedere che Roma era divenuta un’altra Gerusalemme.[12]

Marcella aprì così le porte del proprio palazzo sull’Aventino – ma anche quelle del proprio cuore – a numerose nobildonne romane, come Paola e la figlia Eustochio, Asella, Lea, Principia, Marcellina, che si trovavano lì per studiare le Scritture e per pregare. Avendo poi convinto Girolamo a sostenere questo gruppo di donne offrendo la sua competenza biblica e i suoi consigli spirituali, egli le frequentò per tutti i suoi tre anni in cui soggiornò a Roma.

Marcella lo colpì profondamente perché più che sua semplice figlia spirituale, fu una preziosa collaboratrice della sua crescita umana e spirituale.

Quale virtù, quale talento, quale santità, quale purezza ho trovato in lei, ho pudore a dirlo.[13]

La sua condotta evangelica, il suo amore per le Scritture, l’intelligenza della mente e del cuore con la quale la leggeva lo lasciavano continuamente senza parole. In lei la Parola diventava vita.

Incredibile era il suo zelo per le divine Scritture […]. Sapeva che la meditazione della Legge non consiste nel ripetere quello che sta scritto […], ma nell’agire […]. I suoi digiuni erano moderati, si asteneva dalle carni, del vino conosceva più l’odore del gusto, a motivo dello stomaco e delle frequenti malattie. Di rado si presentava in pubblico, e soprattutto evitava le case delle nobili matrone per non essere costretta a vedere ciò che aveva disprezzato. Onorava le basiliche degli apostoli e dei martiri con preghiere segrete e, tra di esse, quelle meno frequentate dalla gente. Obbediva a sua madre a tal punto che a volte faceva quel che non avrebbe voluto […] preferendo perdere il denaro[14] piuttosto che rattristare l’animo della madre.[15]

Così trascorse la sua vita per molti anni; si vide vecchia prima di ricordarsi di essere stata giovane. […] Marcella trascorse i suoi anni e visse pensando sempre di essere sul punto di morire.[16]

Questa è la Marcella che Girolamo incontra a Roma: una donna in cammino. Ed è in questo terreno, già reso fertile dalla preghiera, dallo studio, dalla vita austera, che Girolamo ha la grazia di poter continuare a lavorare.

Ecco allora che Marcella, grazie all’amicizia con Girolamo, si rivela ancora più profonda e innamorata delle Scritture di quanto già non appaia: curiosa, determinata, esigente, ricevuti gli insegnamenti del suo padre spirituale e maestro, formula obiezioni, solleva dubbi, lo sollecita ad ulteriori indagini e lo fa non per superbo spirito di contraddizione, ma per casto amore della Verità.

Poiché a quel tempo godevo di una certa reputazione quale studioso della Scrittura, non venne mai da me senza interrogarmi su qualche punto delle Scritture, e non si arrendeva subito, poneva invece domande non per spirito di contesa, ma per cercare e apprendere soluzioni alle obiezioni che avrebbero potute esser mosse. […]. Dirò soltanto questo: tutto quel sapere che ho potuto accumulare in me attraverso lunghi studi e trasformare quasi in natura attraverso una lunga meditazione, essa l’aveva bevuto, imparato, acquisito, così che dopo la mia partenza, se nasceva una controversia a proposito di qualche passo delle Scritture, si ricorreva al suo giudizio. E poiché era molto prudente […] quando la si interrogava, rispondeva esponendo un’opinione personale come se non fosse sua, ma mia, o di qualcun altro, e si professava discepola nell’istante stesso in cui insegnava […] e non voleva dar l’impressione di offendere il sesso maschile e, a volte, i preti che la interrogavano su questioni oscure e ambigue.[17]

Un senso di profonda amicizia spirituale fra Marcella e Girolamo si rintraccia con facilità in queste righe, laddove non viene tenuto segreto il desiderio di ritirarsi nella casa di campagna della donna, lontano dalla confusione e dalle chiacchiere della città.

Da troppo tempo stiamo vivendo nei compromessi. La nostra nave un po’ è stata sballottata da tempeste marine, un po’ s’è avariata nel cozzare contro gli scogli. Mi pare il caso, dunque, di rifugiarci al più presto in qualche solitario e nascosto angolino di campagna, come in un porto. Lì potremo nutrirci di cibi magari grossolani, ma genuini: pane ordinario, legumi annaffiati con le nostre mani, latte…, tutti prodotti campagnoli prelibati. Con un tal genere di vita il sonno non riuscirà a distoglierci dalla preghiera e la sazietà non ci farà ostacolo alla lettura.[18]

Le tempeste marine cui Girolamo allude rimandano al fatto che il clima ecclesiale romano, con la morte di papa Damasco, è cambiato; si scatenano, infatti, sentimenti di gelosia e di invidia nei confronti di Girolamo, che, vittima di maldicenze, sospetti, insinuazioni penose a motivo delle sue relazioni con Marcella e Paola, lascia definitivamente Roma.

Un nutrito numero di lettere manterrà Girolamo e Marcella uniti, ma i due non si vedranno più, certi però del fatto che

Quando fisicamente siamo lontani, possiamo trovar sollievo facendo conversare le anime.[19]

Partito Girolamo per la Terrasanta, Marcella non ha tempo per sentirsi abbandonata; si accorge invece di essere rivestita di una ulteriore responsabilità nel servizio alla Chiesa che lei ama e, in qualche modo, si ritrova a prendere il posto di Girolamo dinanzi alle minacce dell’eresia.

Allora la santa Marcella, che a lungo aveva chiuso gli occhi per non destare il sospetto che fosse mossa da gelosia, quando comprese che la fede, lodata per bocca dell’Apostolo, era violata in molti punti tanto che l’eretico trascinava perfino dei preti e molti monaci e soprattutto dei laici a dare il loro assenso e si prendeva gioco della semplicità del vescovo, si oppose pubblicamente, preferendo piacere a Dio, piuttosto che agli uomini. […] Fu lei a dar principio alla condanna degli eretici [che], chiamati a difendersi con numerose lettere, non osarono venire e tanto grande era il peso che gravava sulla loro coscienza che preferirono essere condannati in contumacia, piuttosto che essere accusati di persona.[20]

L’ultima battaglia di Marcella è combattuta nel 410: Roma è assediata dai Goti, che entrano in città, devastano le case, le spogliano di ogni bene, violentano le donne, uccidono. Anche il palazzo di Marcella è invaso:

In mezzo a tanta confusione, il vincitore sanguinario entra anche nel palazzo di Marcella. […] Si dice che accolse gli aggressori con volto intrepido. Poiché le si chiedeva l’oro e le ricchezze nascoste, si giustifica mostrando la sua rozza tunica, ma non riesce a far credere alla sua povertà volontaria. Colpita con bastoni e flagelli, dicono che non sentisse i tormenti, ma che si gettava piangendo ai piedi dei suoi carnefici per supplicare che non ti[21] separassero da lei perché temeva che la tua giovane età non sopportasse ciò che la vecchiaia non poteva temere. Cristo addolcì i cuori induriti e tra le spade cruente trovò spazio la pietà. […] Dopo alcuni mesi Marcella, sana e salva, in buona salute si addormentò nel Signore e lasciò te erede della sua povertà, o piuttosto attraverso di te lasciò eredi i poveri. Chiuse gli occhi sotto le tue mani, rese lo spirito in mezzo ai tuoi baci e, mentre tu piangevi, lei sorrideva cosciente di aver vissuto bene e di godere dei beni futuri.[22]

[1] Questo non accade solo in Occidente. Qualche esempio a titolo esemplificativo: la sorella di Agostino, rimasta vedova, fondò un monastero a Ippona, in Numidia. Alcune vergini, dopo l’esperienza romana, seguiranno Girolamo in Palestina e fonderanno lì dei monasteri femminili. Ancora in Palestina, sul Monte degli Ulivi, sotto la guida di Melania l’Anziana, era sorto un monastero femminile. Ed esperienze simili si trovano ancora a Costantinopoli e ad Olimpia.

[2] Cf. Girolamo, Lettere, 127, 4-5

[3] Girolamo, Lettere, 46,1. La lettera, inserita nell’epistolario di Girolamo, è tramandata come scritta da Paola e da sua figlia Eustochio per invitarla a raggiungerle in Palestina.

[4] Solo in maniera indiretta, attraverso le risposte date alle sue lettere da Girolamo, ci è dato di conoscere Marcella.

[5] Girolamo, Lettere, 127, 7.1

[6] Girolamo, Lettere, 28, 1

[7] Girolamo, Lettere, 29, 1

[8] Girolamo, Lettere, 127, 2.1

[9] Girolamo, Lettere, 127, 3.6; 3.9; 3.11

[10] Girolamo, Lettere, 127, 5.1; 5.3-4

[11] Girolamo si rivolge qui a Principia, figlia spirituale di Marcella e destinataria della lettera 127.

[12] Girolamo, Lettere, 127, 8.3

[13] Girolamo, Lettere, 127, 7.3

[14] La madre Albina amava i suoi parenti e voleva che tutti i beni di Marcella, che non aveva figli, fossero devoluti ai figli del fratello. Marcella, invece, preferiva i poveri, tuttavia, non volle opporsi alla madre e lasciò ai ricchi i gioielli e le suppellettili.

[15] Girolamo, Lettere, 127, 4.1-2; 4.5-8; 4.10

[16] Girolamo, Lettere, 127, 6.2; 6.6

[17] Girolamo, Lettere, 127, 7.2; 7.4-6

[18] Girolamo, Lettere, 42.3

[19] Girolamo, Lettere, 44

[20] Girolamo, Lettere, 127, 9.7; 10.5-6

[21] Girolamo si rivolge qui a Principia, figlia spirituale di Marcella e destinataria della lettera 127.

[22] Girolamo, Lettere, 127, 13.1; 13.3-6; 14.1-3

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