Domenica di inizio Quaresima

«… Il Signore, Dio tuo, adorerai …».

 Lettura del Vangelo secondo Matteo 4, 1-11

In quel tempo. Il Signore Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”». Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”». Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vattene, Satana! Sta scritto infatti: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”». Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.

Catechesi di padre Massimo di Domenica 06 marzo 2022 – dalla Parrocchia Santa Rita – Milano –  Vangelo del rito Ambrosiano –  Matteo 4, 1-11.

2022-03-06_Domenica_pMG_Catechesi_dalla_Parrocchia_S_Rita_Milano.mp3

«… le tentazioni …».

Omelia di padre Massimo di Domenica 06 marzo 2022 – dalla Parrocchia Santa Rita – Milano –  Vangelo del rito Ambrosiano –  Matteo 4, 1-11.

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«… ti seguirò …».

Omelia di padre Massimo di Domenica 06 marzo 2022 – dalla Parrocchia Santa Rita – Milano –  Vangelo del rito Ambrosiano –  Matteo 4, 1-11 – ore 18.30.

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Padri e madri del deserto

«… Abba Antonio …».

6 marzo 2022
I Domenica di Quaresima

Invito al monachesimo

Abba, dicci una parola…
Antonio il grande

Perché chiedere una parola ad un uomo così lontano nel tempo e nello spazio da noi? Perché chiedere una parola ad un monaco? Perché fidarci di abba Antonio? Cosa ha da insegnarci?
Lo stile di vita condotto da abba Antonio (e dagli altri padri e madri del deserto) – e che prende il nome di monachesimo – paradossalmente si configura come la risposta a tutte le domande della vita di ciascuno di noi e alle domande che il tempo presente, quotidianamente, senza neppure troppa discrezione, ci pone.
Del resto quando Antonio nel IV secolo si ritirò nel deserto o quando san Benedetto fondò il monachesimo occidentale (V/VI sec.) i tempi non erano certo più facili di quelli di oggi: davanti alle persecuzioni l’uno, ad un impero che stava finendo e alle invasioni barbariche l’altro; davanti all’incertezza e all’assenza di Dio, Antonio e Benedetto, benché in tempi e luoghi diversi, fecero una cosa sola: si ritirarono. E in quello spazio, tessuto di silenzio e preghiera, divennero consapevoli del fatto che solo chi cambia se stesso può cambiare il mondo.
Questo invito quaresimale al monachesimo vuole essere, semplicemente, l’invito a mettere in moto una vita spirituale, una vita di fede che unifichi la persona. Non è una cosa proprio facile: richiede scelta, discernimento, giudizio,
decisione, perseveranza. Non a caso i monaci sono dei combattenti, dei guerrieri, che lottano costantemente per custodire questa scelta e per portarla nella più profonda delle stanze interiori e lì entrare in contatto con Colui che è più intimo a loro di loro stessi. In quella stanza, il monaco è totalmente unificato: questo, infatti, vuol dire la parola monaco (dal greco monos): non è una persona “sola”, ma colui che è unitario, unificato, cioè pensa, dice e fa la stessa cosa, alla luce della Parola di Dio.
Monaco è quella persona le cui azioni hanno un unico centro, e a quello tendono sempre a ritornare, per da lì ripartire di nuovo.
Questo tempo di Quaresima è quello opportuno per fare come hanno fatto i padri e le madri del deserto: entrare nella nostra grotta, rifugiarci nelle nostre celle cittadine e lì ascoltare la Parola di Dio, lasciarsi guidare e illuminare dallo Spirito, lasciarsi disfare e poi rifare da Lui, affinché le parole e le azioni di ogni giorno nascano nella preghiera e nel silenzio dell’incontro con Dio.
Questo incontro con Dio, che è sicuramente personale e intimo, non può che essere fatto all’interno della Chiesa, della tradizione, che ci consegna un’eredità, un cammino, una strada, un metodo. E lo fa anche attraverso la vita di uomini e donne come noi che, nei primi secoli del cristianesimo, hanno scelto quotidianamente di vivere e percorrere ogni giorno la strada della santità.
Per questo chiediamo a loro “una parola” che ci guidi nell’ascesi, nella lotta contro ciò che ci fa ripiegare su noi stessi, contro ciò che ci fa lasciare la vita in mano alle circostanze, contro ciò che ci impedisce di incontrare il Signore.
Siamo dunque tutti chiamati a vivere questo monachesimo, ciascuno il proprio.
Senza sognare il martirio o l’eroismo, quello che ci insegnano i padri e le madri del deserto è di abbracciare con gratitudine la croce della quotidianità:
stare accanto ai figli che non rispondono alle nostre aspettative, aver cura degli anziani che tornano bambini, accogliere le critiche dei colleghi che non apprezzano quello che facciamo, essere fedeli a quel detto a quel marito o a quella moglie per cui oggi credi invece di essere invisibile.
Per fare tutto questo ci serve un metodo, un esempio, una guida: la fede è una cosa seria e non possiamo fidarci della nostra emotività.
Se il nostro desiderio è quello di avere un progetto serio di vita spirituale, abbiamo la Parola da ascoltare, la Chiesa da seguire e duemila anni di patrimonio di sapienza e intelligenza da esplorare, conoscere, sperimentare, praticare.

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6 marzo 2022
I Domenica di Quaresima

Abba, dicci una parola…
Antonio il Grande

Abba Antonio
Abba Antonio

Alcuni fratelli fecero visita ad abba Antonio e gli dissero: «Dicci una parola: come potremo essere salvi?». Disse loro l’anziano: «Avete ascoltato la Scrittura? È quello che occorre per voi». Risposero: «Anche da te vogliamo sentire qualcosa, padre». (Antonio abate, Detti 19)

Un giorno il santo abba Antonio, mentre dimorava nel deserto, fu preso da scoraggiamento e da grande tenebra di pensieri. E diceva a Dio: «Signore, voglio essere salvato, ma i pensieri me lo impediscono. Che potrò fare della mia afflizione? Come posso essere salvato?». Sporgendosi un poco, Antonio vede un altro come lui, che sta seduto e lavora, poi si alza dal lavoro e prega, poi, di nuovo si siede e intreccia la corda, poi, di nuovo, si alza per pregare. Era un angelo del Signore inviato a correggere Antonio e a rassicurarlo. E udì l’angelo che diceva: «Fa’ così e sarai salvo». Come udì queste parole, fu preso da grande gioia e coraggio, così fece e si salvò.  (Antonio abate, Detti 1)

Non erano ancora passati sei mesi dalla morte dei genitori e mentre, come al solito, si recava nella casa del Signore, meditava tra sé e sé, e considerava tutto questo: come gli apostoli avessero lasciato tutto per seguire il Salvatore e come quelli di cui si parla negli Atti, venduti i propri beni, portassero il ricavato e lo deponessero ai piedi degli apostoli perché fosse distribuito a chi ne aveva bisogno e quale e quanto grande fosse la speranza riservata loro nei cieli. Pensando a queste cose, entrò nella casa del Signore e accadde che proprio in quel momento veniva letto il Vangelo; e sentì il Signore che diceva al ricco: Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quello che possiedi e dallo ai poveri; poi vieni, seguimi e avrai un tesoro nei cieli. Antonio, come se il ricordo dei santi gli fosse venuto da Dio stesso e come se la lettura fosse proprio per lui, subito uscì dalla casa del Signore, donò alla gente del suo villaggio i beni che aveva ereditato dai genitori – si trattava di trecento arure (circa 80 ettari) di terra fertile e buonissima – perché non creassero fastidi né a lui né alla sorella. Vendette poi tutti gli altri beni mobili che possedeva, ne ricavò una considerevole somma di denaro e la diede ai poveri, riservandone una piccola parte per la sorella. (Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio, 2.2).

Disse ancora: «Nessuno, se non avrà conosciuto la tentazione, potrà entrare nel regno dei cieli. Togli le tentazioni», disse, «e nessuno si salverà». (Antonio abate, Detti 5)

Ma il diavolo, che odia il bene ed è invidioso, non sopportò di vedere in un giovane tale proposito di vita e incominciò a mettere in opera anche contro di lui i suoi intrighi abituali. Per prima cosa cercò di distoglierlo dall’ascesi ispirandogli il ricordo delle ricchezze, la sollecitudine per la sorella, l’affetto per i parenti, l’amore per il denaro, il desiderio di gloria, il piacere di un cibo svariato e ogni altro godimento della vita. Infine gli suggeriva il pensiero di come sia aspra la virtù e quali fatiche richieda e gli metteva dinanzi la debolezza del corpo e la lunghezza del tempo. Insomma risvegliò nella sua mente una grande tempesta di pensieri, perché voleva distoglierlo dalla sua giusta decisione. (Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio, 5.1-3)

Disse abba Antonio: «Vidi tutte le reti del Nemico stese sulla terra e gemendo dissi: “Chi potrà sfuggire?”. E udii una voce che mi disse: “L’umiltà”». (Antonio abate, Detti 7)

Domandò ad abba Antonio: «Che debbo fare?». Gli rispose l’anziano: «Non confidare nella tua giustizia, non preoccuparti delle cose che passano, domina la lingua e il ventre». (Antonio abate, Detti 6)

Disse ancora: «Alcuni rovinano il loro corpo con l’ascesi, ma poiché mancano di discernimento si allontanano da Dio». (Antonio abate, Detti 8)

Antonio, dunque, non si ricordava del tempo trascorso, ma ogni giorno, come se incominciasse in quel momento la vita di ascesi, intensificava i suoi sforzi per progredire e ripeteva continuamente le parole di Paolo: Dimentico del passato, tendo verso ciò che sta innanzi. Ricordava anche le parole del profeta Elia che dice: È vivente il Signore alla cui presenza io oggi sto. Osservava infatti che, dicendo «oggi», il profeta non misurava il tempo trascorso, ma, come se ogni volta incominciasse, cercava ogni giorno di presentarsi a Dio così come bisogna comparire dinanzi a Lui con un cuore puro, pronto a obbedire alla sua volontà e a nessun altro. (Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio, 7.11).

Siate vigilanti, non lasciate che la vostra lunga ascesi si perda, ma preoccupatevi di tener viva la vostra sollecitudine come se cominciasse soltanto adesso. Conoscete le insidie dei demoni, sapete quanto sono feroci eppure deboli. Non temeteli, dunque, ma respirate sempre Cristo e abbiate fede in lui. Vivete come se doveste morire ogni giorno, vigilate su voi stessi e ricordate le esortazioni che avete udite da me. (Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio, 91.2).

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6 marzo 2022

I Domenica di Quaresima 

Abba, dicci una parola…

Antonio il Grande

Alcuni fratelli fecero visita ad abba Antonio e gli dissero: «Dicci una parola: come potremo essere salvi?». Disse loro l’anziano: «Avete ascoltato la Scrittura? È quello che occorre per voi». Risposero: «Anche da te vogliamo sentire qualcosa, padre». (Antonio abate, Detti 19).

«Dicci una parola: come potremo essere salvi?» chiedono ad abba Antonio i fratelli. Abba, cioè padre, è quel padre che genera secondo lo Spirito, che trasmette la vita attraverso una parola, che non è parola sua, ma è parola sottomessa alla Parola di Dio, sua serva umile. Per questo Antonio rinvia sempre chi lo interroga alla Scrittura: «Avete ascoltato la Scrittura? È quello che occorre per voi». Ma i discepoli ribattono: «Anche da te vogliamo sentire qualcosa, padre».

Le parole umane, allora, se nate dallo Spirito, diventano portatrici di vita.

Ma come fanno le parole umane a nascere dallo Spirito? Come si fa a capire ciò che viene dall’uomo, ciò che viene da Dio e ciò che viene dal male?

Il primo dei trentotto detti di Antonio il grande, che poi è il primo di tutti i detti dei padri del deserto tramandati, ha un significato particolarissimo.

Un giorno il santo abba Antonio, mentre dimorava nel deserto, fu preso da scoraggiamento e da grande tenebra di pensieri. E diceva a Dio: «Signore, voglio essere salvato, ma i pensieri me lo impediscono. Che potrò fare della mia afflizione? Come posso essere salvato?». Sporgendosi un poco, Antonio vede un altro come lui, che sta seduto e lavora, poi si alza dal lavoro e prega, poi, di nuovo si siede e intreccia la corda, poi, di nuovo, si alza per pregare. Era un angelo del Signore inviato a correggere Antonio e a rassicurarlo. E udì l’angelo che diceva: «Fa’ così e sarai salvo». Come udì queste parole, fu preso da grande gioia e coraggio, così fece e si salvò.  (Antonio abate, Detti 1).

Ci si aspetterebbe che, del padre dei padri del deserto, in apertura venisse presentato il miracolo più grande oppure la guarigione più straordinaria o il racconto della sua vocazione.

Invece si ha qui una fotografia di Antonio in lotta con quello che è considerato uno dei più grandi mali della vita spirituale: l’acedia (o accidia). Questo detto è un po’ come se fosse la sintesi dell’itinerario spirituale di Antonio: è il racconto di un salvato: «Così fece e si salvò» – conclude il detto.

Vi è in queste poche righe la mappa del combattimento spirituale, che ogni discepolo del Signore si trova a dover affrontare.

I detti sono sempre la risposta, la parola lasciata in eredità al discepolo che chiede al padre una parola di salvezza: qui (e non solo qui[1]) la parola di salvezza è data dall’esempio di un uomo di Dio che imparò a lottare contro la tentazione e fu salvato.

Antonio – dice il detto – dimorava, stava nel deserto: non ci era finito per caso, aveva operato una scelta di vita che lo aveva portato ad allontanarsi dai luoghi abitati, dalle comodità della vita, dagli amici, dalle ricchezze. Quel dimorava, la forza di quello stare, spiega che solo nel deserto Antonio poteva imparare l’arte di abitare non solo il deserto geografico, ma anche il deserto della sua stessa umanità.

L’acedia, ovvero quel senso di scoraggiamento, quella specie di nausea, di non-senso che a volte coglie anche la nostra vita, insidia non soltanto il cuore, ma anche la mente di Antonio e avanza, galoppa in maniera proporzionale alla scelta di vita semplice, di spoliazione, di rinuncia che viene fatta. L’acedia spira avversione per il luogo, per il genere di vita, per il lavoro, insinua che l’amore per i fratelli sia cosa vana e che non ci sia nessuno disposto ad accogliere e consolare la nostra povera persona, neppure Dio; suggerisce alla mente il ricordo dei parenti, della vita di prima; prospetta la fatica dell’ascesi, dichiara l’inutilità di aver lasciato tutto in vista dell’Uno. Questo è capitato anche ad Antonio che, andato nel deserto per cercare il Signore, quasi sembra essere sul punto di tornare indietro.

Ma il detto suggerisce anche la via d’uscita dalla tentazione: Antonio prende le distanze dalla tempesta di pensieri (loghismoi) che lo ossessionano, segna un limite, un confine marcato fra quanto sente nella sua testa e la sua volontà di salvezza. «Voglio essere salvato» – dice – «ma i pensieri me lo impediscono».

I loghismoi – termine usato nella tradizione monastica per designare i sentimenti, gli impulsi, i fantasmi, le inclinazioni che affiorano nel cuore e nell’immaginario dell’uomo – vengono riconosciuti e denunciati da Antonio come qualcosa di estraneo, di altro da Dio, come qualcosa che si oppone alla salvezza.

Antonio attua così un processo di discernimento da cui immediatamente prende avvio il combattimento spirituale: «Sporgendosi un poco», cioè spostandosi non semplicemente fisicamente, ma modificando la posizione del cuore, ossia prendendo le distanze da quei pensieri, oggettivando la situazione, smettendo di autodichiararsi vittima di quell’evento, «vede un altro come lui che sta seduto e lavora, poi si alza dal lavoro e prega» e la scena si ripete più volte fino a quando Antonio non si accorge che ha dinanzi a sé un angelo del Signore.

Tuttavia gli angeli – è noto – per loro natura non lavorano. Che senso ha questa visione? Che cosa suggerisce, allora?

Quei loghismoi, quei pensieri corrotti, ricevono in questa visione la luce dello Spirito, che li rivela nella loro natura e dà loro un nome: la tentazione di Antonio è il desiderio di una spiritualistica evasione dal suo status, dalla sua condizione umana. Ciò che l’angelo gli chiede di fare non è nulla di straordinario: lavoro e preghiera, perseveranza nella gioia e fatica del lavoro e perseveranza nella gioia e fatica della preghiera. Resosi conto di questo, Antonio si lascia correggere, si ravvede, allontana da sé la tentazione di vivere una vita angelica e fa così come vede: torna alla sua vita umile di lavoro e preghiera, rientra nell’amore di Dio che si manifesta nella sua quotidianità, qui, sulla terra, e si salva.

La vita di abba Antonio è caratterizzata da un vivace dinamismo: la sua vita da cristiano, la sua vita da monaco non è mai uno status, ma si caratterizza sempre come una via, come un continuo camminare e progredire nella conoscenza di sé e di Dio, in una ferma obbedienza a quel primo appello del Signore a rinunciare ai suoi beni e a seguirlo[2]. A partire da quel momento, nel racconto di Atanasio, che scrive la Vita di Antonio, è possibile individuare quattro fughe che spingono Antonio nel corso della sua vita a cercare una solitudine sempre più grande. Queste quattro fughe, questi quattro passaggi – che vedono Antonio prima vivere ai margini della propria città, poi spostarsi in un sepolcro lontano dal proprio villaggio, poi trascorrere venti anni di assoluta solitudine in un fortino abbandonato nel deserto ed infine ritirarsi su una montagna nella regione più interna del deserto egiziano – non avvengono in modo spontaneo, così come la crescita spirituale di Antonio non avviene in modo lineare: ogni tappa della vita di Antonio è caratterizzata da una crisi, da un momento di dura prova e di tentazione.

Disse ancora: «Nessuno, se non avrà conosciuto la tentazione, potrà entrare nel regno dei cieli. Togli le tentazioni», disse, «e nessuno si salverà». (Antonio abate, Detti 5)

È dunque per Antonio (e per tutti noi) quello della tentazione il momento opportuno, lo spazio sacro in cui avviene che un equilibrio si spezza per lasciare posto a quella nuova creatura che dentro di lui, poco a poco, il Signore sta plasmando.

La lotta nel deserto, che nasce come lotta contro i piaceri e le seduzioni del mondo[3], si fa sempre più interiore, più intima, fino a raggiungere le profondità del cuore, quegli abissi che attendono di essere evangelizzati, trasfigurati dalla grazia di Dio.

Così accade che tutto ciò che Antonio aveva fatto con l’entusiasmo del novizio per amore del Signore, gli viene presentato alla mente come irragionevole, insensato, folle. La sua chiamata a servire il Signore gli appare come un’illusione e ciò a cui ha liberamente rinunciato tenta di sedurlo. Il Divisore gli pone davanti la sua debolezza, la fatica dell’ascesi, la lunghezza del cammino ancora da percorrere[4].

Disse abba Antonio: «Vidi tutte le reti del Nemico stese sulla terra e gemendo dissi: “Chi potrà sfuggire?”. E udii una voce che mi disse: “L’umiltà”». (Antonio abate, Detti 7)

È proprio nella tentazione e nella lotta, che Antonio impara a conoscere se stesso e la propria debolezza; impara a diffidare delle sue forze. La solitudine del deserto mette a nudo la verità più profonda: non può contare su se stesso, né sulle proprie forze, né sulla proprie capacità, né sul proprio passato. Non può contare su nulla.

Sarà solo attraverso la lotta della preghiera che Antonio vincerà la tentazione e permetterà al Signore di vincere in lui. Nella battaglia contro il male ne esce consolato e rafforzato, ma non allenta la lotta: persevera nella preghiera, nella veglia, nel digiuno.

Domandò ad abba Antonio: «Che debbo fare?». Gli rispose l’anziano: «Non confidare nella tua giustizia, non preoccuparti delle cose che passano, domina la lingua e il ventre». (Antonio abate, Detti 6)

Per vivere la lotta e non esserne sottomessi c’è bisogno di un necessario contenimento dei bisogni vitali dell’uomo, come il cibo e il sonno, e una indispensabile fermezza nel vigilare su di sé e sul proprio cuore. La veglia ha l’obiettivo di tenere il cuore desto nell’attesa del giorno del Signore; il digiuno orienta verso un’altra fame, che è la fame della Parola di Dio; l’ascesi è sempre opera di liberazione da sé e dai propri pensieri per lasciar spazio all’opera di Dio in noi.

Tuttavia digiuno, veglia e ascesi non sono cosa buona in sé e non devono mai essere assolutizzati: sono soltanto mezzi che predispongono all’esercizio della carità, dell’amore per Dio e per il prossimo. Antonio stesso condanna ogni eccesso nell’ascesi:

Disse ancora: «Alcuni rovinano il loro corpo con l’ascesi, ma poiché mancano di discernimento si allontanano da Dio». (Antonio abate, Detti 8)

Secondo Antonio, infatti, la via della virtù non va misurata in base al tempo, in modo quantitativo, ma in modo qualitativo, in base cioè al desiderio e alla decisione. Proprio per questo, dimentico del tempo trascorso, ogni giorno Antonio iniziava da capo la sua vita d’ascesi e in quell’oggi si presentava a Dio come se fosse la prima volta, con cuore puro, pronto ad obbedire alla Sua volontà e a null’altro[5].

Questa, infatti, fu l’eredità di Antonio, queste le sue ultime parole: «Siate vigilanti, non lasciate che la vostra lunga ascesi si perda, ma preoccupatevi di tener viva la vostra sollecitudine come se cominciasse soltanto adesso. Conoscete le insidie dei demoni, sapete quanto sono feroci eppure deboli. Non temeteli, dunque, ma respirate sempre Cristo e abbiate fede in lui. Vivete come se doveste morire ogni giorno, vigilate su voi stessi e ricordate le esortazioni che avete udite da me»[6].

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[1] Cf. Antonio abate, Detti 27.

[2] Non erano ancora passati sei mesi dalla morte dei genitori e mentre, come al solito, si recava nella casa del Signore, meditava tra sé e sé, e considerava tutto questo: come gli apostoli avessero lasciato tutto per seguire il Salvatore e come quelli di cui si parla negli Atti, venduti i propri beni, portassero il ricavato e lo deponessero ai piedi degli apostoli perché fosse distribuito a chi ne aveva bisogno e quale e quanto grande fosse la speranza riservata loro nei cieli. Pensando a queste cose, entrò nella casa del Signore e accadde che proprio in quel momento veniva letto il Vangelo; e sentì il Signore che diceva al ricco: Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quello che possiedi e dallo ai poveri; poi vieni, seguimi e avrai un tesoro nei cieli. Antonio, come se il ricordo dei santi gli fosse venuto da Dio stesso e come se la lettura fosse proprio per lui, subito uscì dalla casa del Signore, donò alla gente del suo villaggio i beni che aveva ereditato dai genitori – si trattava di trecento arure (circa 80 ettari) di terra fertile e buonissima – perché non creassero fastidi né a lui né alla sorella. Vendette poi tutti gli altri beni mobili che possedeva, ne ricavò una considerevole somma di denaro e la diede ai poveri, riservandone una piccola parte per la sorella. (Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio, 2.2).

[3] Cf. Antonio abate, Detti 33.

[4] Ma il diavolo, che odia il bene ed è invidioso, non sopportò di vedere in un giovane tale proposito di vita e incominciò a mettere in opera anche contro di lui i suoi intrighi abituali. Per prima cosa cercò di distoglierlo dall’ascesi ispirandogli il ricordo delle ricchezze, la sollecitudine per la sorella, l’affetto per i parenti, l’amore per il denaro, il desiderio di gloria, il piacere di un cibo svariato e ogni altro godimento della vita. Infine gli suggeriva il pensiero di come sia aspra la virtù e quali fatiche richieda e gli metteva dinanzi la debolezza del corpo e la lunghezza del tempo. Insomma risvegliò nella sua mente una grande tempesta di pensieri, perché voleva distoglierlo dalla sua giusta decisione. (Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio, 5.1-3).

[5] Antonio, dunque, non si ricordava del tempo trascorso, ma ogni giorno, come se incominciasse in quel momento la vita di ascesi, intensificava i suoi sforzi per progredire e ripeteva continuamente le parole di Paolo: Dimentico del passato, tendo verso ciò che sta innanzi. Ricordava anche le parole del profeta Elia che dice: È vivente il Signore alla cui presenza io oggi sto. Osservava infatti che, dicendo «oggi», il profeta non misurava il tempo trascorso, ma, come se ogni volta incominciasse, cercava ogni giorno di presentarsi a Dio così come bisogna comparire dinanzi a Lui con un cuore puro, pronto a obbedire alla sia volontà e a nessun altro. (Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio, 7.11).

[6] Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio, 91.2.

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